lunedì 29 febbraio 2016

Inno all'umanità

Verso la fine del 2015 ho avuto una brutta disavventura, più di una in realtà, ma quella a cui mi riferisco è stata particolarmente toccante e ha sconvolto una parte di me. Non racconterò i dettagli né cosa è successo, ma da un giorno all’altro la mia idea delle persone, del loro modo di capirmi, o meglio di non capirmi, è stata scardinata per poi essere travolta in un fastidioso buco nero. È come se da un momento all’altro mi fossi ritrovata attonita davanti ad una realtà a lungo celata ma della quale mai avrei sospettato l’esistenza, come quando ci si sveglia dopo una brutta sbronza, cercando di combattere un mal di testa tremendamente forte e maledicendo la troppa luce presente in una stanza vuota, con le lenzuola grigio perla, e che non è la nostra. In quel momento, cercando di ricollegare i dettagli, e di visualizzare i vari “dove ho sbagliato” e i “perché faccio così/perché fanno così” mi sono resa conto che qualcosa doveva cambiare, perché nella stanza con troppa luce, che non è nostra e con le lenzuola grigio perla non ci volevo più entrare. Mi sono guardata allo specchio, ho cercato l’anima, quasi più nascosta dei “dove ho sbagliato” e dei “perché faccio così/perché fanno così” e non trovandola, non intera per lo meno, mi sono fatta una promessa: da domani basta svendersi e sottovalutarsi.
Basta declassarsi, umiliarsi, non pretendere dalla vita ciò che posso avere. Posso? No. Ora non posso. Ora non posso perché nella mia testa il verbo potere è al condizionale, perché non me lo voglio permettere, perché per ora non ci credo. Ma potrò, prima o poi. Basta accontentarsi.  Questo è il mio problema: sottovalutarsi. Ma, come si addice ad una persona un po’ lunatica, dispotica, dipendente da cambiamenti improvvisi di umore ed invasioni di emozioni diverse e disparate in un solo decimo di secondo, una persona che, come spesso mi viene detto, “amplifica”; il mio modo di sottovalutarsi è un po’ particolare.
Per sottovalutarmi non intendo pensare di essere bruttissima, o pensare di non poter raggiungere un determinato obbiettivo che ritengo troppo altro per le mie capacità; quando si tratta di me stessa, un traguardo, di cosa posso fare e cosa no, allora sono una super eroina: non c’è ostacolo che tenga e nulla che io davvero non pensi di poter fare. So che se voglio qualcosa, in qualche modo riuscirò ad ottenerla; ho fiducia in me, nella mia vita, nelle mie capacità e nel mio futuro (che per la cronaca, sarà sfavillante e dedicato a tutti gli autori della mia anima a pezzi ed introvabile). Non sono nemmeno una di quelle ragazze che hanno una taglia 40 e pensano di non potersi permettere un tubino nero, né tanto meno una di quelle persone che si arrendono ad un destino che non è il loro per comodità, “che fanno i tonti per non andare in guerra”. No, io in guerra ci vado ogni giorno, disposta a tutto per arrivare al mio obbiettivo, spogliandomi di pregiudizi e piegandomi a ciò che è dignitosamente necessario per arrivare in quel futuro sfavillante di cui parlavo prima. A me non importa il costo, cosa perderò lungo la strada e di chi non capirà le mie scelte, del tempo che dovrò perdere e di chi mi allontanerà. Però mi sottovaluto, a modo mio, quando si tratta di relazioni interpersonali. Ho una di quelle gravi malattie, quella che io chiamo miopia relazionale, che mi costringe a vedere sempre il buono nelle persone, a cercarlo, scovarlo e amplificarlo come in quei giorni in cui ci si decide a tornare a casa con un vestito nuovo, e nonostante il negozio non offra nulla per cui vale la pena spendere dei soldi, nulla che ci piace e nulla che ci sta bene, ci si fa andare bene un vestito carino e si apre il portafoglio. Io sono così, nonostante le barriere, nonostante gli anni spesi a modificare me stessa per trasformarla in un pezzo di ghiaccio, nonostante le cicatrici, le troppe cicatrici e nonostante gli ostacoli che posiziono di giorno in giorno sul cammino per raggiungere me, finisco sempre per dare tutto, per cedere al piccolo lato positivo che ho trovato e a lasciare che quello spiraglio di luce sembri accecante, come la tanto ricercata “luce in fondo al tunnel”. Con il passare degli anni ho capito che non sono capace di essere la regina del ghiaccio, sono difficile, si, ma non riesco ad essere impassibile, e così, finisco sempre per dare me stessa anche a chi non mi merita, a chi non mi apprezza, a chi di me non interessa nulla.
Avevo deciso di smettere. Ma forse, smettendo, diventerei come quelle persone che non sanno distinguere una relazione da un pizzico di umanità, il volersi bene dall’aiutare il prossimo, l’essere gentili dall’essere deboli. Perché si, c’è una differenza in tutto ciò. Avere una relazione o non averla è diverso da escludere o avere dell’umanità: una relazione è uno status, che si può decidere di dare o meno ad un rapporto; ma l’umanità è qualcosa che o c’è o non c’è, o ci si nasce oppure no. Non è un’etichetta o un accessorio riconosciuto socialmente da sfoggiare sul profilo facebook; e se c’è, se ci si nasce, è una fiamma impossibile da spegnere, che per quanto si possa sopprimere prima o poi ritorna a prendersi il suo posto. Così la gentilezza, così l’aiuto reciproco, così avere dei sentimenti e non essere dei fottutissimi automi. Chi ha tutto ciò, non sarà capace di limitarsi, non sarà disposto a fingere il pezzo di ghiaccio, non si impegnerà in un compromesso con sé stesso, chi ha tutto ciò, tutto ciò vorrà tutto ciò in cambio e non sarà capace di accettare surrogati. Questa è la mia, e non solo mia, maledizione. Chi vede il bene lo pretende, chi condisce la sua vita di umanità non la annacquerà con cubetti di ghiaccio, ci proverà, ma di certo non sarà soddisfatto del risultato. Se devo vivere limitandomi, forse preferisco non vivere. E se le persone umane non vanno più di moda, beh, io adoro il vintage, i piccoli gesti gentili, i “come stai” e la luce in fondo al tunnel. Io amo le persone che nonostante le barriere, nonostante i traumi e le anime a pezzi hanno sempre la forza di regalare il bene, di opporsi agli automi e di farsi del male cercando il buono negli altri. Queste persone, che soffrono di più, che sembrano più fragili, sono in realtà quelle più forti. Siamo talmente abituati allo schifo, al male che ormai il bene fa paura, come se passassimo mesi al buio ed i nostri occhi non fossero più capaci di sopportare la luce, e allora ci rifugiamo nella fuga. Anzi no, vi rifugiate nella fuga. O meglio, si rifugiano nella fuga, (perché so di non essere l’unica vintage) come i vermi che hanno paura di seccarsi al sole. Se si fugge però, non ci si può aspettare di imbattersi in un altrettanto schifo, in un altrettanto male, in un altrettanto buio, in un altro verme che come te sta scappando dal sole.






martedì 16 febbraio 2016

critica acritica di Sanremo ed il pianista guerriero

In questi giorni, senza dubbio, l’hot-topic che intasa radio, tv, e web è uno ed uno solo: Sanremo. 
Una settimana fa si parlava delle anticipazioni, dei pronostici, dei piccoli gossip su chi, come e quando sarebbe stato al festival. Dopo c’è stato il “durante”, tra polemiche su un Gabriel Garko bello quanto incapace e una Virginia Raffaele brillante, nastrini arcobaleno ed ospiti innegabilmente costosi; ed ora, quando tutto sembra finito si continua a parlarne tra valutazioni, pagelle ed interviste a vincitori premiati e vincitori “morali”. Mi sono sempre chiesta come un festival, a cui partecipano cantanti bravi ma non di certo le perle affermate della musica italiana, possa riscuotere così tanto successo, tanto più che delle canzoni presentate solo due o tre sarebbero ascoltabili senza iniettare nell’ascoltatore una terribile dose di malinconia. Parere personale, ovviamente. Inutile dire che per queste ragioni, e sicuramente anche perché la televisione non rientra nei miei hobby preferiti, non ho mai guardato Sanremo. Quest’anno però, complice una serie di sfortunate malattie di stagione arrivate tutte insieme quali influenza, raffreddore, un ascesso e febbre alta, mi sono ritrovata a contribuire ai grandi picchi di ascolti del festival, bloccata sul divano con una bolla dell’acqua calda e senza troppe alternative valide sugli altri canali. Quasi per una congiuntura astrale, in collaborazione con l’universo e con il patrocinio del karma negativo che chissà come ho attirato su di me; ho seguito ogni puntata di Sanremo, arrivando in parte a mettere in discussione i miei pregiudizi.
Di certo il festival è piacevole da seguire, se non per le canzoni lo è per i presentatori, le gag, gli ospiti e le interviste; ma in alcuni momenti è arrivato ad essere addirittura commovente. Inutile dire che, tra gli svariati programmi della televisione italiana, che di certo non brillano per intelligenza e profondità di argomenti, il Festival di quest’anno sia stato per certi versi non solo intelligente, ma addirittura un momento culturale e di critica, seppur velata, dei grandi argomenti che si stanno discutendo. Partendo dai nastrini arcobaleno, arrivando agli interventi semi-rivoluzionari di Rocco Hunt, fino alla commovente esibizione di Ezio Bosso, mi sono ritrovata piacevolmente sorpresa nel constatare che forse la televisione non è messa poi così male, che forse rimane un minimo del ruolo che l’arte dovrebbe avere, in ogni sua forma: quello di criticare una società malata e corrotta, di stimolare riflessioni, e portare i problemi all’attenzione delle masse, seppur con una veste diversa.
Ma andiamo con ordine. A prescindere dalle opinioni in merito, penso che l’iniziativa dei nastrini arcobaleno sia stata una grande prova che il popolo italiano ed i suoi artisti non sono così stupidi e dormienti come spesso ci viene fatto credere. Portare un tema così delicato ad una vetrina così vasta e con un pubblico così variegato come il festival, penso che sia lodevole e di grande impatto. Ma soprattutto trattare questo tema, per la prima volta, in modo silenzioso, senza berci ed insulti, e nel totale rispetto dell’opinione altrui, trovo che sia un gesto davvero intelligente e degno di nota. Quando si parla di gay, famiglie, matrimonio ed adozione, solitamente il discorso ricade nella “malattia dell’omosessualità” e nella “normalità di una famiglia composta da due elementi di sesso diverso”; un tema così importante viene banalizzato senza scrupolo e ridotto a discorsi senza senso, senza capo né coda, che non possono, ma attenzione, soprattutto non vogliono portare a nulla di costruttivo. Invece a Sanremo non ha parlato nessuno, non ha insultato nessuno, non ha motivato nessuno, non ha convinto nessuno; ci si è semplicemente limitati a mettere in mostra un’opinione senza nemmeno nominarla, ci si è limitati a far vedere da che parte si sta e a tacere, lasciando le considerazioni agli spettatori. O meglio, a chi stava guardando quel programma con il cervello acceso e con la voglia di assimilare informazioni e rifletterci su perché, va sempre ricordato, molto dipende da con che occhi si guarda qualcosa e da con che spirito lo si vuole giudicare. Ed è proprio in questo verbo che sta la genialità di questa iniziativa: giudicare. Nessuno, con i nastrini o senza, ha giudicato.


E poi il pianista. Ezio Bosso. Quel signore in carrozzella che continuava a ridere, che non avendo visto la presentazione inizialmente non capivo cosa ci facesse lì e chi fosse, quella che pensavo fosse un’imitazione di pessimo gusto contro la quale ero già pronta a scagliarmi, tanto erano esagerati i gesti mentre parlava. E invece no, cinque minuti dopo mi era chiaro che lui era vero, che quei gesti enormi erano solo il segno di un'energia travolgente e io stavo piangendo. Così visibilmente malato, eppure così bello. L’immagine dei sogni che salvano, della forza che eleva, della bellezza d’animo, di un cuore enorme, dell’arte che si tramuta in vita. Tutta quell’energia che quasi mi faceva sentire una nullità a confronto; la luce negli occhi, quella della fenice che rinasce dalle ceneri, quella di chi combatte costantemente, quella di chi non si può arrendere e nonostante tutte le cose brutte passate sorride e ti mette una gran voglia di vivere. Questa è la vera forza: quella di chi nonostante le battaglie perse non perde mai la positività, non smette mai di sorridere alla vita, non si rinchiude in barriere e non alza muri, non diventa scontroso, non maledice la vita ma anzi la benedice e rimane lì; e ride, abbagliandoti quasi a tal punto da nascondere le cicatrici. Così è la sua musica: speranzosa, luminosa, ammaliante, un balsamo contro il male. Lui, è il vero vincitore di Sanremo, della vita. Lui è un eroe. E finalmente su un palco così importante e così seguito, viene mostrato qualcuno di davvero grande, qualcuno puro e da cui davvero dovremmo prendere esempio.  Qualcuno che è un drago, nonostante la sua fragilità, un guerriero, ma soprattutto qualcuno che ha il grande potere magico di farti venir voglia di essere migliore. 


lunedì 1 febbraio 2016

Addio

Caro amico,
siamo nei giorni della merla, ma nella tua Italia non fa freddo. E nemmeno nella tua Torino, sai, ci sono stata ieri per un tragico gioco d’ironia della sorte. Io però oggi, nonostante i 10 gradi, ho asciugato i capelli con l'asciugacapelli; di solito non lo faccio ma oggi si, perché sentivo il gelo nelle ossa, perché avevo brividi che immobilizzavano ogni fibra nervosa, perché sentivo il ghiaccio gelare ogni movimento vitale dentro di me. Forse è così che ti sei sentito anche tu, nell’ultimo istante, realizzando che l’aria mancava, che la gola stringeva, che tutto passava davanti come in un treno impazzito, riportando dolore e gioia nella stessa carrozza, fino a che non hai tirato il freno a mano e concluso la sua corsa. Forse hai avuto paura, hai maledetto la tua decisione, hai desiderato di poter premere rewind e riprendere tutto da capo come per magia, ridendo sul gesto folle che avevi quasi compiuto. O magari no, magari eri solo beato, felice, in pace. Non lo so, e non lo saprò mai, così come le infinite risposte alla miriade di domande che in questi casi vorremmo urlare, che iniziano a tormentare le nostre notti, a gonfiare le occhiaie e a bagnare gli occhi, fino a che si assopiranno, come in un abbiocco temporaneo, per destarsi di nuovo alla prima occasione utile. La vita, la morte, le decisioni, i bivi, la giovinezza, la vecchiaia che non vedrai mai, cos’è tutto ciò? Non lo sappiamo, e nell’incertezza ho acceso un altro lumino con il mio solito motto: oggi guardo il soffitto, ma da domani si riparte, con milioni di cicatrici in più. Ma continuo a sentirlo, il freddo; nonostante il riscaldamento, la doccia bollente, la tuta felpata e l’accappatoio di pile. Lo sento anche ora, mentre ti scrivo questa lettera senza destinazione, penetrare nelle punte delle dita e rendere il ticchettio sui tasti doloroso. Lo sento nella schiena, nelle spalle, nelle ginocchia, e persino negli occhi. Lo sento perché non è solo freddo: è vuoto, strazio, mutismo, il desiderio di rifugiarsi in un abbraccio, la nausea che sale e nessuna voglia di mangiare, la fuga nel silenzio che ora sembra assordante quanto necessario, la paralisi a guardare il lumino, l’immobilismo e il turbine di pensieri annebbiati, fini a sé stessi.  Non è il primo che accendo, non è la prima volta che accade tutto questo, non la prima volta che mi trovo ad imprecare rassegnata contro un destino nel quale non vedo un senso, contro i tratti di un disegno che scompaiono per diventare insulsi scarabocchi chiusi in sé stessi, privi di estetica e significato. In questa vita incrociamo milioni di destini, milioni di vite, occhi, sorrisi, con cui condividiamo momenti fuggenti o piccole eternità, ma nonostante il dato temporale non smettiamo mai di mischiarci. Ci sono anime che si fermano solo un giorno ma che ci si imprimono sottopelle, che sentiamo affini, e ci accrescono, buttano qualcosa in più in quella miscela di ingredienti che non smette mai di formarsi durante i giorni che viviamo; lasciano e prendono qualcosa: ricordi, emozioni, condivisioni. Non per tutti, alcune persone magari non sentono come sento io, ma a discapito delle mie barriere io lascio entrare tutti, lascio entrare quegli animi che sento propendersi verso di me, e lascio che si mischino. Noi che viaggiamo rischiamo di più, ci mischiamo di più, viviamo attimi che durano mesi ed emozioni amplificate, per noi un momento insieme vale quanto un mese di amicizia, ci affezioniamo di più, ci rifugiamo nell’altro come per colmare la lontananza dalla vita “reale”. Noi siamo più forti, ma allo stesso tempo più vulnerabili. Non abbiamo condiviso molto, io e te, solo una casa e una città per poco più di un mese, ma io ti ricordo. Ricordo quando bussavi alla porta e facevi colazione con noi, scroccando l’ennesima fetta di torta al cioccolato appena fatta. Ricordo quando tornando a casa vi trovavo seduti attorno al mio tavolo, e vi ricordavo scherzosa che anche voi avevate un appartamento, che probabilmente avevate sbagliato porta, che la vostra era proprio quella accanto. Ricordo le cene improvvisate e condivise, le sere in cui bussavi, entravi e nonostante la mia faccia assonnata mi obbligavi benevolmente a bere una birretta e fare quattro chiacchiere. Ricordo i party, i ritorni a casa in taxi, le ore passate nel salotto tra la spaghettata di mezzanotte e quattro cazzate tra amici, ricordo il van e le tue offerte di portarci al supermercato per risparmiarci mezz’ora a piedi sotto 40 gradi. Io ricordo, sebbene non abbiamo passato anni insieme, io ricordo. Momenti, piccoli, ma che si sono impressi sottopelle perché tu eri davvero una brava persona, perché tu eri solare, perché tu eri uno spirito affine, perché tu non lo meritavi. Ricordo il lavoro nei campi, duro e faticoso mi spezzava la schiena ogni giorno, mi disintegrava, mi deprimeva, però noi ci ridevamo su, voi mi aiutavate e mi contagiavate con la solita frase, con quell’innocente irriverenza, con quella strafottente ribellione: “ne faccio uno di bin, e poi vado a dormire sul furgoncino, vaffanculo”. Ricordo le giornate passate a casa da sola, quando le gambe a pezzi e la schiena dolorante mi impedivano di andare al lavoro, quando non riuscivo a stare in nessuna posizione senza che i miei muscoli facessero male, e mi mettevo sul divano a studiare per la tesi, fino a che ancora una volta arrivavi dalla porta accanto e ti fermavi una mezz’ora a chiacchierare. È stato bello, sai, averti come vicino di casa. E poi ricordo l’ultima volta che ti ho visto, per puro caso: era Natale dello scorso anno e tu eri partito già da un po’, stavi viaggiando con il tuo van sgangherato chissà con quale meta, avevi lasciato il lavoro nei campi ed ora ti godevi la vita da backpacker. Io ero a Surfers, per qualche giorno di vacanza, e mi stavo dando allo shopping sfrenato mentre Simone mi aspettava sul marciapiede fuori dal negozio fumando una sigaretta paziente, lo avevi riconosciuto da lontano e ti eri fermato a parlare. Eri radioso, felice, luminoso; illuminato dalla presenza della tua ragazza, così innamorato e premuroso, e in quel momento fui davvero felice per te. Ci salutammo, sorridenti, con la promessa di sentirci nel caso in cui ci fossimo trovati nello stesso posto; ti augurammo buon viaggio e ti abbracciammo. Spero che lo sia stato davvero, un buon viaggio. Chissà cos’è successo dopo, chissà cosa ha portato quel ragazzo tanto sereno a compiere lo spietato ed ultimo gesto, l’ultimo urlo di dolore straziante per un mondo che delle volte ci lascia incompresi. Intanto io ti scrivo questa lettera, perché non so cosa c’è dopo la morte, perché non so se scommettere sull’eternità; ma perlomeno in queste parole vivrai per sempre.
Con affetto,

riposa in pace.