Verso la fine del 2015 ho avuto una brutta disavventura, più
di una in realtà, ma quella a cui mi riferisco è stata particolarmente toccante
e ha sconvolto una parte di me. Non racconterò i dettagli né cosa è successo,
ma da un giorno all’altro la mia idea delle persone, del loro modo di capirmi,
o meglio di non capirmi, è stata scardinata per poi essere travolta in un
fastidioso buco nero. È come se da un momento all’altro mi fossi ritrovata
attonita davanti ad una realtà a lungo celata ma della quale mai avrei
sospettato l’esistenza, come quando ci si sveglia dopo una brutta sbronza,
cercando di combattere un mal di testa tremendamente forte e maledicendo la
troppa luce presente in una stanza vuota, con le lenzuola grigio perla, e che
non è la nostra. In quel momento, cercando di ricollegare i dettagli, e di
visualizzare i vari “dove ho sbagliato” e i “perché faccio così/perché fanno
così” mi sono resa conto che qualcosa doveva cambiare, perché nella stanza con
troppa luce, che non è nostra e con le lenzuola grigio perla non ci volevo più
entrare. Mi sono guardata allo specchio, ho cercato l’anima, quasi più nascosta
dei “dove ho sbagliato” e dei “perché faccio così/perché fanno così” e non
trovandola, non intera per lo meno, mi sono fatta una promessa: da domani basta
svendersi e sottovalutarsi.
Basta declassarsi, umiliarsi, non pretendere dalla vita ciò
che posso avere. Posso? No. Ora non posso. Ora non posso perché nella mia testa
il verbo potere è al condizionale, perché non me lo voglio permettere, perché
per ora non ci credo. Ma potrò, prima o poi. Basta accontentarsi. Questo è il mio problema: sottovalutarsi. Ma,
come si addice ad una persona un po’ lunatica, dispotica, dipendente da
cambiamenti improvvisi di umore ed invasioni di emozioni diverse e disparate in
un solo decimo di secondo, una persona che, come spesso mi viene detto,
“amplifica”; il mio modo di sottovalutarsi è un po’ particolare.
Per sottovalutarmi non intendo pensare di essere
bruttissima, o pensare di non poter raggiungere un determinato obbiettivo che
ritengo troppo altro per le mie capacità; quando si tratta di me stessa, un
traguardo, di cosa posso fare e cosa no, allora sono una super eroina: non c’è
ostacolo che tenga e nulla che io davvero non pensi di poter fare. So che se voglio
qualcosa, in qualche modo riuscirò ad ottenerla; ho fiducia in me, nella mia
vita, nelle mie capacità e nel mio futuro (che per la cronaca, sarà sfavillante
e dedicato a tutti gli autori della mia anima a pezzi ed introvabile). Non sono
nemmeno una di quelle ragazze che hanno una taglia 40 e pensano di non potersi
permettere un tubino nero, né tanto meno una di quelle persone che si arrendono
ad un destino che non è il loro per comodità, “che fanno i tonti per non andare
in guerra”. No, io in guerra ci vado ogni giorno, disposta a tutto per arrivare
al mio obbiettivo, spogliandomi di pregiudizi e piegandomi a ciò che è
dignitosamente necessario per arrivare in quel futuro sfavillante di cui
parlavo prima. A me non importa il costo, cosa perderò lungo la strada e di chi
non capirà le mie scelte, del tempo che dovrò perdere e di chi mi allontanerà.
Però mi sottovaluto, a modo mio, quando si tratta di relazioni interpersonali.
Ho una di quelle gravi malattie, quella che io chiamo miopia relazionale, che
mi costringe a vedere sempre il buono nelle persone, a cercarlo, scovarlo e
amplificarlo come in quei giorni in cui ci si decide a tornare a casa con un
vestito nuovo, e nonostante il negozio non offra nulla per cui vale la pena
spendere dei soldi, nulla che ci piace e nulla che ci sta bene, ci si fa andare
bene un vestito carino e si apre il portafoglio. Io sono così, nonostante le
barriere, nonostante gli anni spesi a modificare me stessa per trasformarla in
un pezzo di ghiaccio, nonostante le cicatrici, le troppe cicatrici e nonostante
gli ostacoli che posiziono di giorno in giorno sul cammino per raggiungere me,
finisco sempre per dare tutto, per cedere al piccolo lato positivo che ho
trovato e a lasciare che quello spiraglio di luce sembri accecante, come la
tanto ricercata “luce in fondo al tunnel”. Con il passare degli anni ho capito
che non sono capace di essere la regina del ghiaccio, sono difficile, si, ma non
riesco ad essere impassibile, e così, finisco sempre per dare me stessa anche a
chi non mi merita, a chi non mi apprezza, a chi di me non interessa nulla.
Avevo deciso di smettere. Ma forse, smettendo, diventerei
come quelle persone che non sanno distinguere una relazione da un pizzico di
umanità, il volersi bene dall’aiutare il prossimo, l’essere gentili dall’essere
deboli. Perché si, c’è una differenza in tutto ciò. Avere una relazione o non
averla è diverso da escludere o avere dell’umanità: una relazione è uno status,
che si può decidere di dare o meno ad un rapporto; ma l’umanità è qualcosa che
o c’è o non c’è, o ci si nasce oppure no. Non è un’etichetta o un accessorio
riconosciuto socialmente da sfoggiare sul profilo facebook; e se c’è, se ci si
nasce, è una fiamma impossibile da spegnere, che per quanto si possa sopprimere
prima o poi ritorna a prendersi il suo posto. Così la gentilezza, così l’aiuto
reciproco, così avere dei sentimenti e non essere dei fottutissimi automi. Chi
ha tutto ciò, non sarà capace di limitarsi, non sarà disposto a fingere il
pezzo di ghiaccio, non si impegnerà in un compromesso con sé stesso, chi ha
tutto ciò, tutto ciò vorrà tutto ciò in cambio e non sarà capace di accettare
surrogati. Questa è la mia, e non solo mia, maledizione. Chi vede il bene lo
pretende, chi condisce la sua vita di umanità non la annacquerà con cubetti di
ghiaccio, ci proverà, ma di certo non sarà soddisfatto del risultato. Se devo
vivere limitandomi, forse preferisco non vivere. E se le persone umane non
vanno più di moda, beh, io adoro il vintage, i piccoli gesti gentili, i “come
stai” e la luce in fondo al tunnel. Io amo le persone che nonostante le
barriere, nonostante i traumi e le anime a pezzi hanno sempre la forza di
regalare il bene, di opporsi agli automi e di farsi del male cercando il buono
negli altri. Queste persone, che soffrono di più, che sembrano più fragili,
sono in realtà quelle più forti. Siamo talmente abituati allo schifo, al male
che ormai il bene fa paura, come se passassimo mesi al buio ed i nostri occhi
non fossero più capaci di sopportare la luce, e allora ci rifugiamo nella fuga.
Anzi no, vi rifugiate nella fuga. O meglio, si rifugiano nella fuga, (perché so
di non essere l’unica vintage) come i vermi che hanno paura di seccarsi al
sole. Se si fugge però, non ci si può aspettare di imbattersi in un altrettanto
schifo, in un altrettanto male, in un altrettanto buio, in un altro verme che
come te sta scappando dal sole.