In questi giorni, senza dubbio, l’hot-topic che intasa
radio, tv, e web è uno ed uno solo: Sanremo.
Una settimana fa si parlava delle
anticipazioni, dei pronostici, dei piccoli gossip su chi, come e quando sarebbe
stato al festival. Dopo c’è stato il “durante”, tra polemiche su un Gabriel
Garko bello quanto incapace e una Virginia Raffaele brillante, nastrini
arcobaleno ed ospiti innegabilmente costosi; ed ora, quando tutto
sembra finito si continua a parlarne tra valutazioni, pagelle ed interviste a
vincitori premiati e vincitori “morali”. Mi sono sempre chiesta come un
festival, a cui partecipano cantanti bravi ma non di certo le perle affermate
della musica italiana, possa riscuotere così tanto successo, tanto più che
delle canzoni presentate solo due o tre sarebbero ascoltabili senza iniettare
nell’ascoltatore una terribile dose di malinconia. Parere personale,
ovviamente. Inutile dire che per queste ragioni, e sicuramente anche perché la
televisione non rientra nei miei hobby preferiti, non ho mai guardato Sanremo. Quest’anno
però, complice una serie di sfortunate malattie di stagione arrivate tutte
insieme quali influenza, raffreddore, un ascesso e febbre alta, mi sono
ritrovata a contribuire ai grandi picchi di ascolti del festival, bloccata sul
divano con una bolla dell’acqua calda e senza troppe alternative valide sugli
altri canali. Quasi per una congiuntura astrale, in collaborazione con l’universo
e con il patrocinio del karma negativo che chissà come ho attirato su di me; ho
seguito ogni puntata di Sanremo, arrivando in parte a mettere in discussione i
miei pregiudizi.
Di certo il festival è piacevole da seguire, se non per le
canzoni lo è per i presentatori, le gag, gli ospiti e le interviste; ma in
alcuni momenti è arrivato ad essere addirittura commovente. Inutile dire che,
tra gli svariati programmi della televisione italiana, che di certo non brillano
per intelligenza e profondità di argomenti, il Festival di quest’anno sia stato
per certi versi non solo intelligente, ma addirittura un momento culturale e di
critica, seppur velata, dei grandi argomenti che si stanno discutendo. Partendo
dai nastrini arcobaleno, arrivando agli interventi semi-rivoluzionari di Rocco
Hunt, fino alla commovente esibizione di Ezio Bosso, mi sono ritrovata piacevolmente
sorpresa nel constatare che forse la televisione non è messa poi così male, che
forse rimane un minimo del ruolo che l’arte dovrebbe avere, in ogni sua forma:
quello di criticare una società malata e corrotta, di stimolare riflessioni, e
portare i problemi all’attenzione delle masse, seppur con una veste diversa.
Ma andiamo con ordine. A prescindere dalle opinioni in
merito, penso che l’iniziativa dei nastrini arcobaleno sia stata una grande
prova che il popolo italiano ed i suoi artisti non sono così stupidi e
dormienti come spesso ci viene fatto credere. Portare un tema così delicato ad
una vetrina così vasta e con un pubblico così variegato come il festival, penso
che sia lodevole e di grande impatto. Ma soprattutto trattare questo tema, per
la prima volta, in modo silenzioso, senza berci ed insulti, e nel totale rispetto
dell’opinione altrui, trovo che sia un gesto davvero intelligente e degno di nota. Quando
si parla di gay, famiglie, matrimonio ed adozione, solitamente il discorso
ricade nella “malattia dell’omosessualità” e nella “normalità di una famiglia
composta da due elementi di sesso diverso”; un tema così importante viene
banalizzato senza scrupolo e ridotto a discorsi senza senso, senza capo né coda,
che non possono, ma attenzione, soprattutto non vogliono portare a nulla di
costruttivo. Invece a Sanremo non ha parlato nessuno, non ha insultato nessuno,
non ha motivato nessuno, non ha convinto nessuno; ci si è semplicemente
limitati a mettere in mostra un’opinione senza nemmeno nominarla, ci si è
limitati a far vedere da che parte si sta e a tacere, lasciando le considerazioni
agli spettatori. O meglio, a chi stava guardando quel programma con il cervello
acceso e con la voglia di assimilare informazioni e rifletterci su perché, va
sempre ricordato, molto dipende da con che occhi si guarda qualcosa e da con
che spirito lo si vuole giudicare. Ed è proprio in questo verbo che sta la genialità
di questa iniziativa: giudicare. Nessuno, con i nastrini o senza, ha giudicato.
E poi il pianista. Ezio Bosso. Quel signore in carrozzella che
continuava a ridere, che non avendo visto la presentazione inizialmente non
capivo cosa ci facesse lì e chi fosse, quella che pensavo fosse un’imitazione
di pessimo gusto contro la quale ero già pronta a scagliarmi, tanto erano
esagerati i gesti mentre parlava. E invece no, cinque minuti dopo mi era chiaro
che lui era vero, che quei gesti enormi erano solo il segno di un'energia travolgente e io stavo piangendo. Così visibilmente malato, eppure così
bello. L’immagine dei sogni che salvano, della forza che eleva, della bellezza
d’animo, di un cuore enorme, dell’arte che si tramuta in vita. Tutta quell’energia
che quasi mi faceva sentire una nullità a confronto; la luce negli occhi,
quella della fenice che rinasce dalle ceneri, quella di chi combatte costantemente,
quella di chi non si può arrendere e nonostante tutte le cose brutte passate
sorride e ti mette una gran voglia di vivere. Questa è la vera forza: quella di
chi nonostante le battaglie perse non perde mai la positività, non smette mai
di sorridere alla vita, non si rinchiude in barriere e non alza muri, non
diventa scontroso, non maledice la vita ma anzi la benedice e rimane lì; e
ride, abbagliandoti quasi a tal punto da nascondere le cicatrici. Così è la sua
musica: speranzosa, luminosa, ammaliante, un balsamo contro il male. Lui, è il
vero vincitore di Sanremo, della vita. Lui è un eroe. E finalmente su un palco
così importante e così seguito, viene mostrato qualcuno di davvero grande,
qualcuno puro e da cui davvero dovremmo prendere esempio. Qualcuno che è un drago, nonostante la sua
fragilità, un guerriero, ma soprattutto qualcuno che ha il grande potere magico
di farti venir voglia di essere migliore.
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