lunedì 1 febbraio 2016

Addio

Caro amico,
siamo nei giorni della merla, ma nella tua Italia non fa freddo. E nemmeno nella tua Torino, sai, ci sono stata ieri per un tragico gioco d’ironia della sorte. Io però oggi, nonostante i 10 gradi, ho asciugato i capelli con l'asciugacapelli; di solito non lo faccio ma oggi si, perché sentivo il gelo nelle ossa, perché avevo brividi che immobilizzavano ogni fibra nervosa, perché sentivo il ghiaccio gelare ogni movimento vitale dentro di me. Forse è così che ti sei sentito anche tu, nell’ultimo istante, realizzando che l’aria mancava, che la gola stringeva, che tutto passava davanti come in un treno impazzito, riportando dolore e gioia nella stessa carrozza, fino a che non hai tirato il freno a mano e concluso la sua corsa. Forse hai avuto paura, hai maledetto la tua decisione, hai desiderato di poter premere rewind e riprendere tutto da capo come per magia, ridendo sul gesto folle che avevi quasi compiuto. O magari no, magari eri solo beato, felice, in pace. Non lo so, e non lo saprò mai, così come le infinite risposte alla miriade di domande che in questi casi vorremmo urlare, che iniziano a tormentare le nostre notti, a gonfiare le occhiaie e a bagnare gli occhi, fino a che si assopiranno, come in un abbiocco temporaneo, per destarsi di nuovo alla prima occasione utile. La vita, la morte, le decisioni, i bivi, la giovinezza, la vecchiaia che non vedrai mai, cos’è tutto ciò? Non lo sappiamo, e nell’incertezza ho acceso un altro lumino con il mio solito motto: oggi guardo il soffitto, ma da domani si riparte, con milioni di cicatrici in più. Ma continuo a sentirlo, il freddo; nonostante il riscaldamento, la doccia bollente, la tuta felpata e l’accappatoio di pile. Lo sento anche ora, mentre ti scrivo questa lettera senza destinazione, penetrare nelle punte delle dita e rendere il ticchettio sui tasti doloroso. Lo sento nella schiena, nelle spalle, nelle ginocchia, e persino negli occhi. Lo sento perché non è solo freddo: è vuoto, strazio, mutismo, il desiderio di rifugiarsi in un abbraccio, la nausea che sale e nessuna voglia di mangiare, la fuga nel silenzio che ora sembra assordante quanto necessario, la paralisi a guardare il lumino, l’immobilismo e il turbine di pensieri annebbiati, fini a sé stessi.  Non è il primo che accendo, non è la prima volta che accade tutto questo, non la prima volta che mi trovo ad imprecare rassegnata contro un destino nel quale non vedo un senso, contro i tratti di un disegno che scompaiono per diventare insulsi scarabocchi chiusi in sé stessi, privi di estetica e significato. In questa vita incrociamo milioni di destini, milioni di vite, occhi, sorrisi, con cui condividiamo momenti fuggenti o piccole eternità, ma nonostante il dato temporale non smettiamo mai di mischiarci. Ci sono anime che si fermano solo un giorno ma che ci si imprimono sottopelle, che sentiamo affini, e ci accrescono, buttano qualcosa in più in quella miscela di ingredienti che non smette mai di formarsi durante i giorni che viviamo; lasciano e prendono qualcosa: ricordi, emozioni, condivisioni. Non per tutti, alcune persone magari non sentono come sento io, ma a discapito delle mie barriere io lascio entrare tutti, lascio entrare quegli animi che sento propendersi verso di me, e lascio che si mischino. Noi che viaggiamo rischiamo di più, ci mischiamo di più, viviamo attimi che durano mesi ed emozioni amplificate, per noi un momento insieme vale quanto un mese di amicizia, ci affezioniamo di più, ci rifugiamo nell’altro come per colmare la lontananza dalla vita “reale”. Noi siamo più forti, ma allo stesso tempo più vulnerabili. Non abbiamo condiviso molto, io e te, solo una casa e una città per poco più di un mese, ma io ti ricordo. Ricordo quando bussavi alla porta e facevi colazione con noi, scroccando l’ennesima fetta di torta al cioccolato appena fatta. Ricordo quando tornando a casa vi trovavo seduti attorno al mio tavolo, e vi ricordavo scherzosa che anche voi avevate un appartamento, che probabilmente avevate sbagliato porta, che la vostra era proprio quella accanto. Ricordo le cene improvvisate e condivise, le sere in cui bussavi, entravi e nonostante la mia faccia assonnata mi obbligavi benevolmente a bere una birretta e fare quattro chiacchiere. Ricordo i party, i ritorni a casa in taxi, le ore passate nel salotto tra la spaghettata di mezzanotte e quattro cazzate tra amici, ricordo il van e le tue offerte di portarci al supermercato per risparmiarci mezz’ora a piedi sotto 40 gradi. Io ricordo, sebbene non abbiamo passato anni insieme, io ricordo. Momenti, piccoli, ma che si sono impressi sottopelle perché tu eri davvero una brava persona, perché tu eri solare, perché tu eri uno spirito affine, perché tu non lo meritavi. Ricordo il lavoro nei campi, duro e faticoso mi spezzava la schiena ogni giorno, mi disintegrava, mi deprimeva, però noi ci ridevamo su, voi mi aiutavate e mi contagiavate con la solita frase, con quell’innocente irriverenza, con quella strafottente ribellione: “ne faccio uno di bin, e poi vado a dormire sul furgoncino, vaffanculo”. Ricordo le giornate passate a casa da sola, quando le gambe a pezzi e la schiena dolorante mi impedivano di andare al lavoro, quando non riuscivo a stare in nessuna posizione senza che i miei muscoli facessero male, e mi mettevo sul divano a studiare per la tesi, fino a che ancora una volta arrivavi dalla porta accanto e ti fermavi una mezz’ora a chiacchierare. È stato bello, sai, averti come vicino di casa. E poi ricordo l’ultima volta che ti ho visto, per puro caso: era Natale dello scorso anno e tu eri partito già da un po’, stavi viaggiando con il tuo van sgangherato chissà con quale meta, avevi lasciato il lavoro nei campi ed ora ti godevi la vita da backpacker. Io ero a Surfers, per qualche giorno di vacanza, e mi stavo dando allo shopping sfrenato mentre Simone mi aspettava sul marciapiede fuori dal negozio fumando una sigaretta paziente, lo avevi riconosciuto da lontano e ti eri fermato a parlare. Eri radioso, felice, luminoso; illuminato dalla presenza della tua ragazza, così innamorato e premuroso, e in quel momento fui davvero felice per te. Ci salutammo, sorridenti, con la promessa di sentirci nel caso in cui ci fossimo trovati nello stesso posto; ti augurammo buon viaggio e ti abbracciammo. Spero che lo sia stato davvero, un buon viaggio. Chissà cos’è successo dopo, chissà cosa ha portato quel ragazzo tanto sereno a compiere lo spietato ed ultimo gesto, l’ultimo urlo di dolore straziante per un mondo che delle volte ci lascia incompresi. Intanto io ti scrivo questa lettera, perché non so cosa c’è dopo la morte, perché non so se scommettere sull’eternità; ma perlomeno in queste parole vivrai per sempre.
Con affetto,

riposa in pace.

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