Caro amico,
siamo nei giorni della merla, ma nella tua Italia non fa
freddo. E nemmeno nella tua Torino, sai, ci sono stata ieri per un tragico
gioco d’ironia della sorte. Io però oggi, nonostante i 10 gradi, ho asciugato i
capelli con l'asciugacapelli; di solito non lo faccio ma oggi si, perché sentivo il gelo
nelle ossa, perché avevo brividi che immobilizzavano ogni fibra nervosa, perché
sentivo il ghiaccio gelare ogni movimento vitale dentro di me. Forse è così che
ti sei sentito anche tu, nell’ultimo istante, realizzando che l’aria mancava,
che la gola stringeva, che tutto passava davanti come in un treno impazzito,
riportando dolore e gioia nella stessa carrozza, fino a che non hai tirato il
freno a mano e concluso la sua corsa. Forse hai avuto paura, hai maledetto la
tua decisione, hai desiderato di poter premere rewind e riprendere tutto da
capo come per magia, ridendo sul gesto folle che avevi quasi compiuto. O magari
no, magari eri solo beato, felice, in pace. Non lo so, e non lo saprò mai, così
come le infinite risposte alla miriade di domande che in questi casi vorremmo
urlare, che iniziano a tormentare le nostre notti, a gonfiare le occhiaie e a
bagnare gli occhi, fino a che si assopiranno, come in un abbiocco temporaneo,
per destarsi di nuovo alla prima occasione utile. La vita, la morte, le
decisioni, i bivi, la giovinezza, la vecchiaia che non vedrai mai, cos’è tutto
ciò? Non lo sappiamo, e nell’incertezza ho acceso un altro lumino con il mio
solito motto: oggi guardo il soffitto, ma da domani si riparte, con milioni di
cicatrici in più. Ma continuo a sentirlo, il freddo; nonostante il riscaldamento, la doccia bollente, la tuta felpata e l’accappatoio di pile. Lo sento
anche ora, mentre ti scrivo questa lettera senza destinazione, penetrare nelle
punte delle dita e rendere il ticchettio sui tasti doloroso. Lo sento nella
schiena, nelle spalle, nelle ginocchia, e persino negli occhi. Lo sento perché non
è solo freddo: è vuoto, strazio, mutismo, il desiderio di rifugiarsi in un
abbraccio, la nausea che sale e nessuna voglia di mangiare, la fuga nel
silenzio che ora sembra assordante quanto necessario, la paralisi a guardare il lumino, l’immobilismo
e il turbine di pensieri annebbiati, fini a sé stessi. Non è il primo che accendo, non è la prima
volta che accade tutto questo, non la prima volta che mi trovo ad imprecare rassegnata
contro un destino nel quale non vedo un senso, contro i tratti di un disegno
che scompaiono per diventare insulsi scarabocchi chiusi in sé stessi, privi di
estetica e significato. In questa vita incrociamo milioni di destini, milioni
di vite, occhi, sorrisi, con cui condividiamo momenti fuggenti o piccole
eternità, ma nonostante il dato temporale non smettiamo mai di mischiarci. Ci sono
anime che si fermano solo un giorno ma che ci si imprimono sottopelle, che
sentiamo affini, e ci accrescono, buttano qualcosa in più in quella miscela di
ingredienti che non smette mai di formarsi durante i giorni che viviamo;
lasciano e prendono qualcosa: ricordi, emozioni, condivisioni. Non per tutti,
alcune persone magari non sentono come sento io, ma a discapito delle mie
barriere io lascio entrare tutti, lascio entrare quegli animi che sento
propendersi verso di me, e lascio che si mischino. Noi che viaggiamo rischiamo
di più, ci mischiamo di più, viviamo attimi che durano mesi ed emozioni
amplificate, per noi un momento insieme vale quanto un mese di amicizia, ci
affezioniamo di più, ci rifugiamo nell’altro come per colmare la lontananza
dalla vita “reale”. Noi siamo più forti, ma allo stesso tempo più vulnerabili. Non
abbiamo condiviso molto, io e te, solo una casa e una città per poco più di un
mese, ma io ti ricordo. Ricordo quando bussavi alla porta e facevi colazione
con noi, scroccando l’ennesima fetta di torta al cioccolato appena fatta. Ricordo
quando tornando a casa vi trovavo seduti attorno al mio tavolo, e vi ricordavo
scherzosa che anche voi avevate un appartamento, che probabilmente avevate
sbagliato porta, che la vostra era proprio quella accanto. Ricordo le cene
improvvisate e condivise, le sere in cui bussavi, entravi e nonostante la mia
faccia assonnata mi obbligavi benevolmente a bere una birretta e fare quattro
chiacchiere. Ricordo i party, i ritorni a casa in taxi, le ore passate nel
salotto tra la spaghettata di mezzanotte e quattro cazzate tra amici, ricordo
il van e le tue offerte di portarci al supermercato per risparmiarci mezz’ora a
piedi sotto 40 gradi. Io ricordo, sebbene non abbiamo passato anni insieme, io
ricordo. Momenti, piccoli, ma che si sono impressi sottopelle perché tu eri
davvero una brava persona, perché tu eri solare, perché tu eri uno spirito
affine, perché tu non lo meritavi. Ricordo il lavoro nei campi, duro e faticoso
mi spezzava la schiena ogni giorno, mi disintegrava, mi deprimeva, però noi ci
ridevamo su, voi mi aiutavate e mi contagiavate con la solita frase, con quell’innocente
irriverenza, con quella strafottente ribellione: “ne faccio uno di bin, e poi
vado a dormire sul furgoncino, vaffanculo”. Ricordo le giornate passate a casa
da sola, quando le gambe a pezzi e la schiena dolorante mi impedivano di andare
al lavoro, quando non riuscivo a stare in nessuna posizione senza che i miei
muscoli facessero male, e mi mettevo sul divano a studiare per la tesi, fino a
che ancora una volta arrivavi dalla porta accanto e ti fermavi una mezz’ora a
chiacchierare. È stato bello, sai, averti come vicino di casa. E poi ricordo l’ultima
volta che ti ho visto, per puro caso: era Natale dello scorso anno e tu eri
partito già da un po’, stavi viaggiando con il tuo van sgangherato chissà con
quale meta, avevi lasciato il lavoro nei campi ed ora ti godevi la vita da
backpacker. Io ero a Surfers, per qualche giorno di vacanza, e mi stavo dando
allo shopping sfrenato mentre Simone mi aspettava sul marciapiede fuori dal
negozio fumando una sigaretta paziente, lo avevi riconosciuto da lontano e ti
eri fermato a parlare. Eri radioso, felice, luminoso; illuminato dalla presenza
della tua ragazza, così innamorato e premuroso, e in quel momento fui davvero
felice per te. Ci salutammo, sorridenti, con la promessa di sentirci nel caso
in cui ci fossimo trovati nello stesso posto; ti augurammo buon viaggio e ti
abbracciammo. Spero che lo sia stato davvero, un buon viaggio. Chissà cos’è
successo dopo, chissà cosa ha portato quel ragazzo tanto sereno a compiere lo
spietato ed ultimo gesto, l’ultimo urlo di dolore straziante per un mondo che
delle volte ci lascia incompresi. Intanto io ti scrivo questa lettera, perché non
so cosa c’è dopo la morte, perché non so se scommettere sull’eternità; ma
perlomeno in queste parole vivrai per sempre.
Con affetto,
riposa in pace.
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