Mostra ciò che sei, sii ciò che mostri |
Ho iniziato a riflettere su questo post pochi giorni fa,
dopo un avvenimento ordinario che, come
spesso succede, ha aperto le porte a
pensieri straordinari. Un semplice messaggio whatsapp, visto di mattina troppo
presto ed ancora assopito da una nebbia di sonnolenza, ignorato con la solita
frase mentale “rispondo più tardi”; che poche ore dopo si è ripresentato come
un colpo di genio destandomi da un noioso viaggio in treno passato a scrutare
un mondo immaginario al di là del finestrino. Campi, casupole, boschi, e ancora
campi; giallo, brina, l’alba, i monti sempre più grossi e… oddio, mi stavo quasi
dimenticando di rispondere! Cercai il cellulare con mosse frenetiche,
ribaltando come al mio solito l’intero contenuto della borsa, aprii whatsapp
come se fosse una questione di vita o di morte, ed eccolo lì: l’ennesimo invito
ad un ballo in maschera. Il secondo, nel giro di pochi mesi, come se l’universo
volesse vedermi ancora una volta a volto coperto aggirarmi tra conosciuti
sconosciuti, o meglio, sconosciuti conosciuti.
Iniziai a riflettere: mi sono
sempre piaciuti i balli in maschera, e non tanto perché le maschere coprono
ogni difetto e risaltano tremendamente gli occhi, e nemmeno per il senso di
sicurezza che si prova ad indossare qualcosa sul viso; ma perché per una sera
ci si può sentire delle moderne Cenerentole alla ricerca del principe azzurro,
o come nel mio caso, dell’angolo bar. È paradossale, perché si pensa che
lasciando trasparire solo gli occhi e coprendo i difetti con pizzo e strass, si
possa far finta per poche ore di essere persone diverse. Forse è il motivo per
cui mi sono sempre piaciuti Halloween e carnevale: una sera in cui dimenticare sé
stessi, il naso troppo grosso, il brufolo che sta spuntando e i capelli troppo
fini, le occhiaie date dalle notti insonni e i segni dello stress; e diventare
grazie a un tocco di pennello una creatura diversa, cattiva o meno, che può
fare cose incredibili e alla quale non importa di come reagiranno alla sua
vista le altre creature nella stanza. Ma sotto la maschera, possiamo davvero
essere persone diverse? Nascondiamo davvero i difetti? O piuttosto li accentuiamo
condendoli con la libertà di sentirci noi stessi, per una volta privi di paure
e di ansie da reazione? Le maschere lasciano scoperti solo gli occhi, che
accentrino tutta l’attenzione sui veri noi stessi, sulla nostra anima? Che finalmente,
ci mostrino davvero al mondo?
Forse il vero
paradosso, quello che mai nessuno è riuscito a risolvere, non è quello di
Achille e la tartaruga che, per inciso, è facilmente risolvibile con la
tartaruga a conoscenza del segreto del tallone dell’eroe, con una pistola carica
e capace di mirare il punto giusto e arrivare tranquillamente al traguardo dopo
essersi fermata a bere un caffè e a fare un selfie con l’eroe zoppicante. Il vero
paradosso irrisolvibile è il seguente: perché passiamo le nostre giornate a
creare maschere e muraglie invisibili e riusciamo ad essere noi stessi solo con
addosso una maschera concreta e visibile? Seguendo la dimostrazione matematica
dovremmo prima di tutto dimostrare che l’asserzione sia vera, quindi, partiamo
da semplici esempi, che non considereremo assoluti. Continuamente creiamo e
cerchiamo di proiettare un’immagine perfetta di noi stessi: ci vestiamo in modo
da valorizzare i punti forti e coprire, o per lo meno smussare, i punti deboli,
parliamo di argomenti che conosciamo alla perfezione e cerchiamo di evitare
quelli spinosi, ci comportiamo in modo politicamente corretto e cerchiamo in
tutto e per tutto di soddisfare le aspettative dell’essere pensante che ci sta
di fronte; e la cosa peggiore è che il 90% della popolazione mondiale nemmeno
si accorge di questo continuo processo di restyling, che rimane per lo più
inconscio e normale. Siamo spinti, continuamente e incessantemente, a ricercare
un’idea di perfezione, a modellare noi stessi in base ad aspettative e “must”,
a nascondere patologicamente ogni linea che ci contraddistingue e potrebbe
farci sembrare un abominevole mostro al di là della massa. Lo facciamo a
livello estetico, lavorativo, relazionale; non mostriamo i nostri sentimenti
per paura di un rifiuto, del dolore, di una mancata accettazione. Creiamo muri
con l’illusione di proteggerci, calibriamo le parole, i gesti, abbiniamo
perfettamente ogni frase ed ogni reazione, sopprimendo pensieri troppo “strani”,
sentimenti “affrettati”, opinioni “alternative”, comportamenti “inadeguati”. E così,
senza nemmeno accorgercene viviamo con un’impermeabile maschera sul volto, tra
mura indistinte e mutevoli, corazze super equipaggiate, e occhiali da sole di
colori diversi, che ognuno sceglie e modella in base alle proprie esigenze, ma
che nessuno si rifiuta di indossare. Un carnevale continuo, incessante; un
corteo di regine, giullari, bamboline che si destreggiano tra uffici, social
network e magnifici resort, un circo eterno che nonostante le diverse figure ne
esclude sempre una: l’uomo, con le sue paure e i suoi errori. Forse aveva ragione
la Fallaci, quando scriveva una disarmante verità in troppe poche parole per
essere presa sul serio: essere liberi è un DOVERE, prima che un diritto. È più
difficile cambiare corrente e spogliarsi, lasciando che il mondo osservi e
critichi le nostre cicatrici, è più difficile mostrare un’anima che un cappotto
Dolce e Gabbana, è più difficile buttarsi nel vuoto che godersi il panorama
dalla cima di un grattacielo; è più difficile commettere errori, è più difficile accettare che possiamo, dobbiamo, commettere errori, è più difficile amarli che criticarli. La storia ha dimostrato che tutti i muri prima o
poi cadono, tranne uno: quello che ci separa da una vita vera, fatta di rischi
e dolori ma che, per quanto più insicura e terrificante, ci separa da una vita
altrettanto più bella e più intensa. Siamo davvero liberi? No, non lo siamo, ma
possiamo decidere di esserlo.
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